Di iniziativa dei deputati Ascari, Amato, Cherchi, Morfino, Onori, Pavanelli, Quartini, Torto
Anche se questa iniziativa di legge appare datata – risalendo all’ottobre 2022 – e con tutta probabilità non
esaminabile entro la legislatura, appare interessante prenderla in considerazione visto che il tema che
tratta, il rifiuto genitoriale e la violenza intrafamiliare, è da tempo permanentemente all’ordine del giorno
della cronaca e della dottrina e trova spazio e riproposizione anche in sedi parlamentari con i medesimi
argomenti. Poiché madrina e fieramente sostenitrice ne è l’onorevole Stefania Ascari è a lei che si
rivolgono essenzialmente le osservazioni che seguono.
Iniziando, dunque, dal fondo dell’introduzione, laddove si sintetizza il senso dell’iniziativa di legge, non si
può che essere d’accordo con gli scopi dichiarati: “La presente proposta di legge è … volta a rafforzare la piena tutela del diritto dei figli minorenni di mantenere relazioni equilibrate con entrambi i genitori in tutti i casi previsti dall’articolo 337-bis del codice civile, evitando tuttavia l’instaurazione di pregiudizi ulteriori qualora sussista per il figlio una condizione di difficoltà, anche temporanea, nel mantenere rapporti con uno di essi.”
Continuando in questa analisi a ritroso – sicuramente insolita ma resa necessaria, o perlomeno
consigliabile, dal desiderio di essere compresi fino in fondo – sono sicuramente condivisibili anche altre
generiche considerazioni come: “… si intende riconoscere al minore il «diritto ad allontanarsi», cioè il diritto di non proseguire il rapporto con il genitore non ritenuto degno di rivestire tale ruolo, che dovrebbe sempre essere rasserenante e fonte di affetto e dialogo. Si intende riconoscere altresì il diritto di essere accompagnato nella potenzialità di coltivare il ripristino della relazione con quel genitore, senza forzature e senza indebite coercizioni.
Certamente la norma è destinata ad applicarsi ai casi in cui il minore sia in grado di autodeterminarsi e quindi di esprimere valutazioni veritiere; si tratta di situazioni diverse da quelle in cui risulti accertato che le determinazioni del figlio siano inficiate da pressioni psicologiche e morali dei genitori, che potrebbero influenzare quest’ultimo facendo leva sulla giovane età o su altri aspetti caratteriali.”
E anche per questa parte niente da obiettare; anzi, pieno apprezzamento. Nello sviluppo del
ragionamento, sempre restando nell’ambito dell’introduzione, si inizia, tuttavia, ad intuire la necessità di
comprendere bene come concretamente si ha intenzione di agire, pur restando concordi con gli enunciati
teorici: “Persino la formazione del rifiuto in situazioni di accertato condizionamento da parte di uno dei genitori deve trovare rimedi che salvaguardino l’equilibrio affettivo e la serenità del bambino, senza che le eventuali mancanze o inadempienze di un genitore possano ridondare in occasioni di trattamenti penalizzanti per il bambino o in esiti di segregazione, temporanea o permanente, fuori dalla famiglia.
Timori che sembrano fugati da quanto oltre si legge, ovvero: “Al contempo, è necessario prevedere un chiaro disincentivo ad attività di un genitore che inducano nel figlio discredito verso l’altro genitore ovvero un ingiusto timore di coltivare la relazione con esso”. Cui segue, tuttavia, un contrappeso che nella parte finale appare abbastanza oscuro, e di conseguenza preoccupante:”… tali disincentivi devono però presupporre un serio accertamento e una concreta prova delle condotte condizionanti e devono sortire conseguenze afflittive esclusivamente nei confronti dell’autore di esse e non anche nei riguardi del figlio minore”.
Previsione decisamente oscura, per la difficoltà di immaginare come possano conciliarsi le due condizioni –
intervenire efficacemente sul genitore senza che nulla cambi per il figlio. Talmente oscura da costringere il
lettore ad andare immediatamente a vedere come si intende agire. E la risposta lascia francamente
sconcertati: prima si ammonisce il genitore invitandolo a mettere fine alle manipolazioni. Poi, se continua,
si ricorre all’astreinte (art. 614 bis c.p., relativo agli obblighi di fare e di non fare). E qui ci si ferma.
Soluzione che potrebbe anche essere accettabile se nel frattempo il figlio non rimanesse senza tutela. In
altre parole, il figlio per tutto il tempo, in nome della preannunciata “continuità”, resta soggetto a quelli che possono correttamente essere definiti maltrattamenti – anche gravi – di tipo psicologico. Ovvero, fino a che il genitore abusante non si stanca di gettare denaro (potrebbe anche averne moltissimo e agire per
ripicca) il figlio gli resta accanto esattamente come se nessuno si fosse accorto di nulla.
A questo punto, abbastanza scioccati, si torna a leggere la motivazione di fondo della pdl, esposta
all’inizio, come una sorta di premessa: ““si constata che l’attuale quadro normativo tende a garantire in ogni caso la presunta necessità del figlio minore di mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con entrambi i genitori, senza contemplare apparentemente le situazioni in cui il diritto del genitore al mantenimento della relazione parentale con il figlio minore deve essere bilanciato con il diritto del bambino di esprimere le proprie remore, i propri timori e le proprie specifiche esigenze rispetto alla relazione con uno dei genitori.”
Dove sono ospitate una serie di espressioni e affermazioni che vengono date per scontate, quando invece
rappresentano giudizi personali più che discutibili, in quanto estranei sia alla ratio legis dell’affidamento
condiviso che al testo in vigore. Esistono certamente gravi distorsioni applicative delle norme – anche se
sotto altri profili – ma nell’ambito in oggetto la legge non ha responsabilità. Da nessuna parte sta scritto
che il rapporto debba essere “in ogni caso” equilibrato e continuativo. Che non sia così emerge
incontestabilmente dall’art. 337 quater c.c. Inoltre, la legge 54/2006 raffina quanto previsto all’art. 30
Cost. trasformando il diritto-dovere dei genitori in diritto in capo ai figli. Diritto che, in quanto facoltà, a
rigore può essere esercitato o meno. Inappropriato è, inoltre, esprimersi in termini di “bilanciamento” tra
due diritti. Visto che sono in capo alle stesso soggetto – il bambino – è chiaro che potrà anche fruirne
contemporaneamente. Curiosamente, l’ortodossia del testo di legge sul punto è ammessa nella stessa
introduzione: ” È il minore, secondo le norme, il titolare del diritto ad avere e a mantenere una relazione con i propri genitori. Il diritto alla conservazione del rapporto con entrambi i genitori risponde al principio del superiore interesse del minore. Anzi, sarà proprio questo il caso ordinario. Giova rammentare a tale proposito l’ineccepibile testimonianza del presidente di un tribunale toscano che confessò di avere smesso di sentire i figli, tanto gli dicevano sempre la stessa cosa, ossia che desideravano stare con tutti e due i genitori,senza differenze.
Affrontando, comunque, il problema posto, che attiene alla frazione di situazioni in cui il bambino rifiuta il
contatto con uno dei genitori, si va a scoprire la criticità più seria. Quale genitore? Uno qualsiasi dei due?
Purtroppo no, secondo la pdl.
Già la citazione dalla letteratura si presenta non pertinente: “Diversi studi di psicologia dell’infanzia
ravvisano il desiderio del figlio minore di non intrattenere, per varie ragioni fattuali, alcun rapporto continuativo con il genitore non affidatario.” Sorvoliamo pure sulla “antichità” del termine, anche se sicuramente non ci si voleva riferire ai casi da art. 337 quater c.c, perché per quelli è già prevista la sanzione a tutela dei figli.
Resta però il fatto che in questo modo si taglia fuori una casistica tutt’altro che marginale. Il genitore
rifiutato può essere anche quello prevalente. Non solo. Visto che notoriamente l‘iniziativa di legge nasce
per sollecitazione di associazioni di madri, cosa rispondere all’attuale 20% di genitrici rifiutate (i dati
disponibili attestano che il tasso è crescente) ? A mero titolo di esempio, giusto affinché non si pensi a
situazioni eccezionali fuori statistica, si pensi al vissuto – ben documentato in cronaca – di madri siciliane,
collocatarie, che avevano detto basta all’infelice rapporto con il marito, accusate da questi di essere delle
“xxxxxxx” e di riflesso rifiutate dai figli.
Tornando, dunque, alla polemica di base, ufficialmente ci si scaglia contro la legge 54/2006 (“deve
essere abrogata!”; nella fattispecie “modificata”), ma a ben guardare si contesta la giurisprudenza, come
correttamente attesta il passaggio: “si presume, al di là e al di fuori di ogni accertamento fattuale, che tale
difficoltà sia indotta dal genitore stabilmente convivente con il figlio.”. Dove evidentemente il difetto è
applicativo, non normativo.
Un passaggio importante, perché apre ad un’altra disfunzione della pdl. Come responsabile, di quale
genitore si sta parlando? Sopra si cita una differenza meramente quantitativa, il che pragmaticamente è
plausibile, anche se una situazione del genere non dovrebbe essere sistematica. Purtroppo l’articolato –
ossia ciò che conta – si esprime diversamente: «Il figlio minore che manifesti in modo espresso la volontà
contraria a incontrare il genitore non convivente o a permanere presso questo non può esservi obbligato”. “La manifestazione di volontà di cui al terzo comma non si presume indotta dal genitore con cui il figlio minorenne convive”. E via dicendo. E siamo in affidamento condiviso. Ovvero, quando il figlio è a casa di uno dei due genitori (quell’altro…) non ci sta “convivendo”: è di passaggio, “in visita”.
E’ evidente che un simile uso del linguaggio (adottato in tutto l’articolato e tutt’altro che casuale)
stravolge il senso della riforma del 2006. Esiste certamente nella pdl qualche rilievo condivisibile (come
vedremo), che potrebbe condurre a positivi raffinamenti della legge in vigore: ma non a costo di
comprometterne l’impianto. Il gioco non varrebbe la candela.
Infine, la proposta affronta l’antico e arduo problema dell’autodeterminazione di soggetti minorenni. In
effetti è innegabile che il problema esiste ed è particolarmente avvertito da chi, come chi scrive, si sforza
di allargarne al massimo i diritti. D’altra parte alla scelta fatta drasticamente a favore di un illimitato
potere decisionale dei figli può essere rimproverato di non avere preso in considerazione alcuna delle
obiezioni che possono ragionevolmente esserle mosse. Anzitutto, ancora una volta l’ordinanza citata (“, la
Corte di cassazione ha proprio rimarcato «il carattere non obbligato ed incoercibile del dovere di frequentazione del genitore» e «il diritto del figlio minore di frequentare il genitore quale esito di una sua scelta, libera ed autodeterminata» (sezione I civile, ordinanza n. 6741 del 6 marzo 2020).“ limita incomprensibilmente la facoltà di rifiuto solo nei confronti del genitore meno presente (come emerge dal contesto completo).
Dopo di che, sanata la limitazione chiaramente anticostituzionale, si presenta un altro problema, ovvero
che in questo modo la decisione del giudice perde totalmente di valore proprio nelle situazioni predilette
dalla pdl 472, che considera solo situazioni a genitore prevalente (quello detto “convivente”). Questo
perché ammettere un diritto di rifiuto totale anche in assenza di colpevolezza del genitore rifiutato
comporta a fortiori il diritto di modulare ad libitum intensità e modalità del rapporto affettivo. Ovvero, ne
deriva che il figlio ha tutto il diritto di modificare o addirittura ribaltare in qualsiasi momento anche i
dosaggi della frequentazione. Dalla quale a sua volta dipendono i contributi economici … Come dire che i
figli decideranno su tutto.
Ciò premesso, al dilemma si deve comunque dare risposta. Riproponiamolo, nei termini della pdl: “… quid
iuris se la volontà del minore è diversa? I rapporti affettivi, per loro natura incoercibili, non possono essere
imposti, ha affermato la Corte di cassazione (sezione I civile, ordinanza n. 11170 del 23 aprile 2019).
Pertanto, il cosiddetto diritto alla bigenitorialità non può spingersi oltre il rifiuto della frequentazione di uno dei due genitori da parte del minore.
Chi scrive individua la replica secondo due aspetti. Anzitutto preventivo. Impostare l’affidamento
condiviso strutturandolo in modo discriminatorio, con un genitore prevalente e un altro in visita, induce
direttamente e immediatamente e nei figli l’idea della gerarchia, della diversa valenza, ovvero in ultima
analisi del possibile rigetto. E non è teoria, è il modello che viene fatto vivere nel quotidianità. Quindi,
secondo legge, frequentazione bilanciata e compiti di cura assegnati a entrambi i genitori. Cosa che
assolutamente non si fa. Dopo di che ci si accorge che, comunque, l’affermazione della Suprema Corte è
giusta, ma la domanda è mal posta. Verissimo che al cuore non si comanda, ma non di ciò si sta trattando.
Anche a parti invertite, non si prescrive ai genitori di amare i figli. Si rilegga, oltre all’art. 30 Cost., il 337 ter
comma I c.c.: non si va oltre l’assistenza morale. E allora si passi all’art. 315 bis comma IV c.c.. Esistono
anche doveri dei figli, come in ogni collettività, e il primo è il rispetto verso i genitori. Per cui, se uno di essi intende assolvere correttamente le proprie funzioni di educare e istruire i figli non è ammissibile che gli venga concretamente impedito mediante il rifiuto ad interagire con esso, rendendolo pure inadempiente. E viceversa. Naturalmente vale anche per i genitori verso i figli: non mi interessa con che spirito e voglia te ne prendi cura: lo fai e basta. Ovviamente il tutto è molto triste, ma, in assenza di sentimenti, sempre meglio il rispetto dei ruoli che l’anarchia.
Il che evidenzia anche un profilo di incostituzionalità. Essendo riconosciuta e codificata l’unicità dello
stato di figlio, il diritto al rifiuto riconosciuto ai figli di separati dovrebbe essere in capo ai figli anche
all’interno di famiglie unite, con il bizzarro risultato di una potenziale permanente contestazione di
qualsiasi scelta da parte dei genitori. Con buona pace del concetto di famiglia come cellula sociale
elementare…
Ma forse delle difficoltà della tesi dei pieni poteri ai figli si deve essere accorto anche l‘estensore della pdl
vista la previsione che: “Quando non esistano mezzi idonei a tutelare la sicurezza degli interessati, il giudice può vietare lo svolgimento degli incontri ancorché la frequentazione non sia rifiutata dal minore”.
Ciò non toglie che, in una lettura assolutamente laica della pdl si debba riconoscere che esistono
suggerimenti che meritano riflessione e probabilmente accoglienza. Ad es., sembra una buona idea dare la parola ai figli prima di applicare i gravi provvedimenti di cui all’art. 337-quater c.c., ad es., aggiungendo un quarto comma che reciti “In ogni caso sentito per qualsiasi provvedimento il figlio minorenne dotato di sufficiente discernimento”.
Se ne conclude l’opportunità di un dialogo e di un confronto per il quale mi dichiaro immediatamente
disponibile.
Marino Maglietta